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30° - Inizio del Genocidio in Bosnia

Uno dei più gravi atti di sangue compiuti in Europa dopo la Seconda Guerra Mondiale, che ancora oggi segna la memoria dei Balcani e della Bosnia-Erzegovina. Il 6 luglio 1995 cominciava il genocidio di Srebrenica, durato fino al 25 luglio, per mano delle truppe serbe guidate dal generale Ratko Mladic.

Nella fase finale della guerra in Bosnia-Erzegovina, il 6 luglio 1995 le truppe serbe guidate da Ratko Mladic occuparono il villaggio di Srebrenica fino al 25 luglio, uccidendo oltre 8300 uomini bosniaci. Negli anni, 21 persone sono state incriminate a livello internazionale con l'accusa di genocidio

La Bosnia-Erzegovina era uno degli Stati che facevano parte della Jugoslavia, nazione comunista nata nel 1945, dopo la liberazione dai nazisti, sotto la guida del maresciallo Josip Broz, detto Tito. Alla morte di Tito, nel 1980, seguì il crollo dell'economia, a cui fecero seguito numerosi fermenti indipendentistici dei vari Stati appartenenti al loro interno, molto eterogenei dal punto di vista ideologico, etnico e religioso. Ciò era particolarmente vero per la Bosnia ed Erzegovina, ex provincia dell'Impero Ottomano, divisa tra un 44% della popolazione musulmano, un 32,5% serbo, un 17% croato e un 6% jugoslavo. 
Nel Paese, l'afflato comunista era ormai in forte crisi: le prime elezioni multipartitiche, che ebbero luogo in Bosnia nel novembre 1990 in vista della piena indipendenza, vinsero i tre maggiori partiti nazionalisti del Paese: il Partito d'Azione Democratica, il Partito Democratico Serbo e l'Unione Democratica Croata di Bosnia ed Erzegovina. 
Nonostante le divisioni, i partiti, che rappresentavano 3 etnie profondamente diverse tra loro, si accordarono per dividersi il potere, in nome dell'anticomunismo e del desiderio condiviso di ribaltare il locale Governo socialista. Dopo mesi di trattative, i tre partiti stabilirono che la Presidenza della repubblica andasse a un musulmano, la Presidenza del parlamento a un serbo e la Presidenza del governo a un croato.
Tuttavia, il desiderio di indipendenza della Bosnia-Erzegovina era osteggiato dai principali Stati confinanti. Già nel marzo 1991 i Presidenti di Croazia, Franjo Tuđman, e Serbia, Slobodan Milošević, si incontrarono informalmente per discutere di un'invasione e spartizione della Bosnia-Erzegovina tra i due Stati. I croati, da un lato, a un passo dall'indipendenza, miravano ad annettere l'intera Bosnia, mentre i serbi erano interessati a includere nel proprio Stato le popolazioni di etnia serba.
L'8 ottobre 1991 la Croazia dichiarò la fine di tutti i legami con il resto della Jugoslavia e, dunque, l'indipendenza. In risposta, una settimana dopo, il 15 ottobre, il parlamento bosniaco, senza la partecipazione dei rappresentanti serbi, emanò un Memorandum sulla riaffermazione della sovranità della Repubblica di Bosnia ed Erzegovina, approvato anche se in violazione della Costituzione, che prevedeva una maggioranza di due terzi.
Il Partito Democratico Serbo (SDS) al potere, quindi, stabilì delle Regioni Autonome Serbe (SAO) in Bosnia-Erzegovina e i deputati serbo-bosniaci di Sarajevo abbandonarono il Parlamento e costituirono a Banja Luka l'Assemblea del Popolo Serbo di Bosnia ed Erzegovina, un Parlamento alternativo che governava le regioni a maggioranza serba e rappresentava i serbi.
A novembre 1991 il Parlamento di Banja Luka istituì un referendum per chiedere l'unione delle regioni da esso governate alla Serbia e al Montenegro, in cui la stragrande maggioranza dei votanti si espresse a favore.
Nel dicembre 1991 i leader dell'SDS stilarono un documento top secret intitolato "Per l'attività e l'organizzazione degli organi della popolazione serba in Bosnia Erzegovina in circostanze eccezionali", un programma dettagliato per la presa di potere in ogni municipalità del Paese, tramite la creazione di un Governo ombra con strutture para-governative, attraverso una serie di "crisi di Governo" e per preparare i lealisti serbi a coordinarsi con l'esercito serbo, l'Armata Popolare Jugoslava (JNA), in un colpo di Stato violento.
Il 9 gennaio 1992 l'Assemblea serbo-bosniaca proclamò la Repubblica del Popolo Serbo di Bosnia Erzegovina e promulgò una Costituzione, in cui dichiarava che il territorio del nuovo Stato includeva non solo le regioni autonome serbe, ma anche le municipalità e le altre entità di etnia serba, così come "tutte le regioni in cui la popolazione serba rappresenta una minoranza a seguito del genocidio della Seconda Guerra Mondiale". Il nuovo Stato diventava quindi parte integrante dello Stato federale jugoslavo.
Le Nazioni Unite nel frattempo avevano costituito una Commissione arbitrale della Conferenza per la Pace in Jugoslavia, che l'11 gennaio 1992 dichiarò che l'indipendenza della Bosnia-Erzegovina non avrebbe potuto essere riconosciuta finché non si fosse tenuto un referendumDi conseguenza, il Parlamento bosniaco fissò la consultazione nei giorni 29 febbraio e 1º marzo. I membri del parlamento serbi invitarono la popolazione (di cui rappresentavano circa un terzo) a boicottarlo.
Il referendum ottenne un'affluenza del 63,7%, con il 92,7% dei votanti a favore dell'indipendenza, che venne formalmente proclamata dal parlamento bosniaco il 3 marzo 1992, ricevendo il riconoscimento internazionale il 6 aprile.
Visto che contemporaneamente era scoppiata una sanguinosa guerra tra Croazia e Serbia per impedire l'indipendenza della prima, la Comunità Europea convocò una conferenza di Pace a Lisbona per impedire ulteriori escalation, che portò all
'Accordo di Lisbona, noto anche come Piano Carrington-Cutileiro, chiamato così per i suoi creatori Lord Carrington e José Cutileiro. Il piano prevedeva la condivisione del potere in Bosnia-Erzegovina a tutti i livelli amministrativi tra le etnie e la devolution dal Governo centrale alle comunità etniche locali, con una divisione in zone amministrative etnicamente definite. 
Il 18 marzo 1992, tutte le parti sottoscrissero l'accordo: Alija Izetbegović per i bosniaci musulmani, Radovan Karadžić per i serbi e Mate Boban per i croati. Tuttavia 10 giorno dopo Izetbegović, dopo l'incontro con l'ambasciatore statunitense in Jugoslavia Warren Zimmermann a Sarajevo, ritirò la sua firma e dichiarò la sua opposizione a qualsiasi tipo di divisione etnica della Bosnia, causando il caos nella regione. Izetbegović disse che l'ambasciatore gli aveva riferito che, se avesse ritirato la sua firma, gli Stati Uniti gli avrebbero concesso il riconoscimento della Bosnia come stato indipendente.
Qualche mese prima, il 25 settembre 1991 il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite aveva imposto l'embargo sulle armi in tutti i territori dell'ex Jugoslavia, che colpì maggiormente l'esercito bosniaco, poiché la Serbia aveva ereditato la quasi totalità dell'arsenale della Jugoslavia e la Croazia aveva messo in piedi un fiorente contrabbando di armi con i gruppi mafiosi attraverso la costa della Dalmazia. Oltre il 55% degli arsenali e delle caserme dell'ex Jugoslavia si trovavano in Bosnia per sfruttare il vantaggio difensivo del terreno montuoso, prestandosi anche a base strategica in caso di invasione lampo della Jugoslavia, ma molte erano sotto controllo serbo.
Il Governo bosniaco aveva fatto pressioni per ottenere la revoca di questo embargo ma Regno Unito, Francia e Russia avevano posto il veto. Il Congresso degli Stati Uniti, invece, approvò due risoluzioni che chiedevano di alleviare l'embargo, ma entrambe furono bloccate dal Presidente Bill Clinton per timore di creare una spaccatura tra gli Stati Uniti e i propri alleati. Tuttavia, gli Stati Uniti usarono canali illegali per infiltrare gruppi terroristi islamici, spesso legati ad Al-Qaeda, e massicci quantitativi di munizioni, contrabbandando armi alle forze musulmane di Bosnia.

Ratko Mladic, oggi 83enne, per i fatti di Srebrenica è stato soprannominato "il macellaio di Bosnia", al pari di Radovan Karadzic, Presidente della Repubblica Serba di Bosnia. Dopo 16 anni di latitanza, la Serbia lo ha catturato nel 2011 ed estradato all'Aja, dove è stato condannato nel 2017 all'ergastolo, confermato in appello nel 2021

L'esercito della Jugoslavia, l'Armata Popolare Jugoslava (JNA), lasciò ufficialmente la Bosnia il 12 maggio 1992, un mese dopo la dichiarazione d'indipendenza, ma la maggior parte della catena di comando, degli armamenti e degli alti comandi, compreso il generale Ratko Mladić, rimasero nel Paese e costituirono l'Esercito Serbo della Bosnia ed Erzegovina (VRS), la forza armata della Repubblica serbo/bosniaca appena creata, che si dichiarava parte della Serbia. Anche i croati organizzarono una propria formazione militare difensiva, il Consiglio di Difesa Croato (HVO). Guardando all'esercito della neonata Bosnia-Erzegovina (ARBiH), la maggioranza dei soldati (75%) era di religione musulmana ma il 1º corpo di stanza a Sarajevo aveva un'ampia percentuale di non musulmani. Il Capo di Stato Maggiore, Sefer Halilović, era musulmano, ma il Vice comandante del quartier generale dell'esercito bosniaco, il generale Jovan Divjak, era serbo, e il secondo Vice comandante, il generale Stjepan Šiber, era croato, in osservanza alle leggi di suddivisione etnica già applicate alle alte cariche dello Stato.
Esisteva anche 
una formazione paramilitare, le Forze di Difesa Croate (HOS), costituita da croati che volevano restare alleati ai bosniaci e che quindi respingevano i propositi secessionisti del Consiglio di Difesa Croato, comandata dal generale Blaž Kraljević. In effetti, a complicare il quadro sul campo, nelle Guerre Balcaniche, era proprio la presenza di diverse unità paramilitari: tra i serbi la Guardia Volontaria Serba di Željko Ražnatović Arkan e le Aquile Bianche, tra i musulmani la Lega Patriottica e i Berretti Verdi, tra i croati la HOS. I paramilitari serbo/croati erano perlopiù volontari provenienti da Serbia e Croazia, sostenuti da partiti politici nazionalisti in questi Paesi, come il Partito Croato dei Diritti, erede degli ustascia di Ante Pavelić, formazione di estrema destra alleata dei nazifascisti durante la Seconda Guerra Mondiale, e il Partito Radicale Serbo. I serbi ricevettero inoltre il sostegno di combattenti provenienti dai Paesi slavi ortodossi come Russia e Grecia; quando Srebrenica cadrà in mano serba dopo il genocidio, la prima bandiera issata sul campo fu quella greca, da parte della Guardia Volontaria Greca.
Si arruolarono con i serbo/croati anche combattenti occidentali provenienti dall'area del fondamentalismo cristiano e volontari neonazisti austro/tedeschi. Il neonazista svedese Jackie Arklöv sarà poi imputato per crimini di guerra in Svezia al ritorno dal conflitto, accusato di aver partecipato a esecuzioni nei campi di concentramento croati. I bosniaci, invece, avevano il sostegno del mondo musulmano, comprese le Guardie della Rivoluzione iraniane e i miliziani libanesi di Hezbollah.
Il 19 settembre 1991 la JNA, l'ex esercito jugoslavo, aveva trasferito le sue truppe supplementari intorno alla città bosniaca di Mostar, con il pretesto di volerle usare per porre fine all'assedio di Dubrovnik da parte dei croati. Il 1º marzo 1992, secondo giorno del referendum sull'indipendenza della Bosnia-Erzegovina, un membro delle forze speciali, Ramiz Delalić, sparò su un corteo nuziale serbo a Baščaršija, uccidendo il padre dello sposo. In risposta a questo assassinio, i serbi si rivoltarono prima a Sarajevo, capitale della Bosnia, e poi anche nelle altre principali altre città bosniache.
I musulmani erano in controllo del centro di Sarajevo, mentre i serbi del resto della città e delle colline intorno ad essa. Dopo un appello al pubblico, Radovan Karadžić (Presidente della Serbia) e Alija Izetbegović (Presidente della Bosnia-Erzegovina), si incontrarono nella sede della JNA nel centro di Sarajevo e affidarono l'ordine pubblico della città a pattuglie miste di JNA e polizia bosniaca.
Nella notte tra il 26 e il 27 marzo 1992, poi, le truppe croate, in coordinamento con paramilitari bosniaci, attraversarono il fiume Sava e massacrarono 60 civili in territorio serbo, causando l'inizio della guerra vera e propria: le forze paramilitari serbe della Guardia Volontaria Serba 5 giorni dopo occuparono Bijeljina, importante città nel nord-est della Bosnia-Erzegovina, uccidendo numerosi civili bosniaci.
In risposta allo scoppio del conflitto , i cittadini di Sarajevo, in maggioranza musulmani bosniaci, il 5 aprile organizzarono una grande protesta contro la guerra, coinvolgendo anche i cittadini di Mostar e di altre città della Bosnia ed Erzegovina. I manifestanti riuscirono a irrompere nel Parlamento e, quando arrivarono a poche centinaia di metri di distanza dal quartier generale del Partito Democratico Serbo, presso l'hotel Holiday Inn, due delle leader della manifestazione, Suada Dilberović e Olga Sučić furono uccise da un cecchino, probabilmente serbo.
Il 1° maggio 1992, i serbi arrestarono all'aeroporto di Sarajevo il Presidente della Bosnia- Erzegovina, Alija Izetbegović, che tornava dalla Conferenza di Pace di Lisbona, e lo condussero al quartier generale della JNA nella città di Lukavica. L'esercito serbo, meglio armato, iniziò il bombardamento di Sarajevo e in seguito assaltando il centro città, tentando di occupare il Palazzo Presidenziale. I bosniaci riuscirono tuttavia a respingere l'attacco, malgrado l'evidente inferiorità di materiale bellico a disposizione. Il giorno seguente, in cambio del rilascio di Izetbegović, venne concordata l'uscita dalla caserma di Sarajevo degli alti gerarchi della JNA e della fanteria. L'esercito bosniaco, comunque, attaccò i miliziani serbi in via Dobrovoljacka, uccidendone 6 e imprigionandone 215.
A giugno 1992 la Forza di protezione delle Nazioni Unite in Croazia (UNPROFOR) , estese il suo mandato anche in Bosnia, inizialmente per proteggere l'aeroporto di Sarajevo e poi anche gli aiuti umanitari e i rifugiati civili.
Le forze serbe ben presto iniziarono comunque ad attaccare i civili non serbi nella Bosnia orientale, dove il controllo delle forze ONU era scarsissimo. Case e appartamenti musulmani erano sistematicamente saccheggiati o bruciati, i civili catturati, e talvolta feriti o uccisi in processi sommari, uomini e donne vennero separati, con molti degli uomini detenuti nei campi di concentramento, e le donne spesso stuprate. Tra il 29 ed il 30 aprile 1992 venne coordinato un attacco al comune di Prijedor, nell'Est del Paese, che divenne la principale base serba in Bosnia: le autorità istituirono campi di lavoro nella fabbrica Keraterm, per un totale di 3 334 persone detenute. Il Tribunale dell'Aja stabilirà che questa operazione era stata coordinata dal Governo della Serbia e non solo la equiparerà a un colpo di Stato ma stabilità che si trattò del primo esempio di pulizia etnica serba, con l'obiettivo di creare un comune puro serbo in Bosnia.
La JNA era arrivata in pochi giorni ad assumere il controllo di oltre il 60% del Paese quando le Nazioni Unite avviarono immediatamente degli accordi di pace, giungendo in pochi giorni alla firma dell'Accordo di Graz tra i leader bosniaci, croati e serbi.
Dopo gli accordi di pace, si verificò un massiccio e fino ad allora mai visto "scambio etnico": nei territori a maggioranza serba, tra cui alcuni quartieri di Sarajevo, i serbi presero il controllo ed espulsero bosniaci e croati. In risposta, nelle regioni centrali della Bosnia-Erzegovina bosniaci e croati cacciarono e uccisero la minoranza serba. 
L'Accordo di Graz causò anche la spaccatura tra i croati, tra chi voleva continuare l'alleanza anti serba con i bosniaci e coloro che, supportati dal Governo, volevano prendere il controllo della Bosnia centrale, regione con una numerosa minoranza croata. Il Consiglio di Difesa Croato (HVO), le truppe paramilitari alleate dei serbi, con il sostegno di alcuni reparti dell'esercito regolare, decisero quindi di prendere il controllo delle zone della Bosnia centrale sotto l'egida dei bosniaci. 
Il 18 giugno 1992 l'esercito bosniaco di stanza a Novi Travnik ricevette un ultimatum (ignorato): abolire le istituzioni della Bosnia ed Erzegovina, riconoscere l'autorità croata, giurare fedeltà alla Croazia, affidare la difesa all'HVO ed espellere i rifugiati musulmani. L'attacco fu lanciato il giorno seguente ma le forze bosniache, anche se mal equipaggiate, riuscirono a respingere l'offensiva croata, ma la Bosnia si ritrovava circondata dalle forze croate a ovest e serbe a est, senza la possibilità di far arrivare armi o cibo. Nell'agosto del 1992, Blaž Kraljević, leader dell'HOS, il gruppo "moderato" croato che sperava di unirsi ai musulmani, fu assassinato dai connazionali dell'HVO.
A ottobre 1992 le forze croate guadagnarono terreno attaccarono la popolazione civile bosniaca a Prozor, bruciando le case e uccidendo civili, che secondo il Tpi costituì pulizia etnica.

Il 14 dicembre 1995, dopo oltre 4 anni, la guerra in Bosnia finiva con gli Accordi di Dayton, che ha ridefinito i confini della Bosnia-Erzegovina e l'ha divisa in due entità, ciascuna grande circa metà del Paese comunque unite in un'unico Stato, una bosniaco/croata e una serba

L'8 gennaio 1993, i serbi uccisero il Vicepremier bosniaco Hakija Turajlić dopo aver fermato il convoglio delle Nazioni Unite che lo stava trasportando dall'aeroporto. In risposta, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite passò Risoluzione 808, che istituì un tribunale internazionale per perseguire i responsabili delle violazioni del diritto umanitario internazionale, il Tribunale penale internazionale per l'ex-Jugoslavia (ICTY) dando mandato alla Nato di imporre una no-fly zone sulla Bosnia (Operazione Deny Flight).
L'Onu presento un altro piano di pace, il Piano Vance-Owenche divideva il paese in tre zone etniche, a seconda dell'etnia che era in maggioranza. Il piano tra il 15 ed il 16 maggio 1993 venne sottoposto a referendum, ma il 96% dei serbi votò contro. I croati intanto portarono avanti altri episodi di pulizia etnica, in cui i musulmani subirono omicidi di massa, stupri, reclusione nei campi, distruzione di siti culturali e proprietà privata. Il massacro di Ahmići nell'aprile 1993, fu il culmine della pulizia etnica croata, con l'uccisione di massa almeno 2000 civili musulmani bosniaci in poche ore: il più giovane era un bambino di 3 mesi, colpito a morte nella culla, e la più anziana è stata una donna di 81 anni. L'ICTY ha stabilito che si trattò di crimini contro l'umanità, dimostrando l'intento da parte della dirigenza croato/bosniaca di ripulire completamente la Bosnia centrale dalla presenza dei musulmani. Dario Kordić, leader politico della Comunità Croata della Bosnia centrale e alto funzionario della Repubblica Croata dell'Erzeg-Bosnia, è stato indicato come il responsabile di questo piano.
L'Erzeg-Bosnia croata introdusse nei territori controllati stemma, bandiere, moneta e lingua croati nelle scuole, tutti i bosniaci vennero rimossi da posizioni di governo e dalle imprese private, gli aiuti umanitari erano distribuiti a svantaggio dei bosniaci e vennero creati 5 campi di concentramento.
Il mattino del 17 aprile 1993 le forze dell'HVO attaccarono anche i villaggi di Sovići e Doljani, circa 50 km a nord di Mostar, con l'obiettivo di aprirsi la strada verso Jablanica, il principale centro della regione. Dopo giorni di combattimento, gli ultimi 75 soldati bosniaci si arresero e almeno 400 civili bosniaci furono arrestati. 
Mostar venne ben presto circondata dalle forze dell'HVO e oggetto di pesanti bombardamenti. La città era divisa in una parte occidentale, controllata dall'HVO, e una parte orientale bosniaca. Il 9 maggio 1993 il Consiglio di difesa croato iniziò l'attacco alla parte est, dopo aver ottenuto il controllo di tutte le strade che portano a Mostar e negato l'accesso alle organizzazioni internazionali. La parte est della città fu occupata da migliaia di bosniaci espulsi dal lato ovest e oggetto di incessanti bombardamenti, mentre le forze dell'HVO si resero protagoniste di esecuzioni di massa, pulizia etnica e stupri sulla popolazione della Mostar Ovest e dei suoi dintorni. Solo dopo 9 mesi l'esercito della Bosnia riuscì a reagire con un'operazione nota come Operazione Neretva '93
La leadership dell'HVO verrà poi condannata dall'ICTY mentre il generale bosniaco Sefer Halilović, responsabile di massacri contro i croati, è stato assolto. Nel tentativo di proteggere i civili, il ruolo dell'UNPROFOR fu ulteriormente ampliato per proteggere alcune "zone di sicurezza" che il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite aveva dichiarato intorno a città come Sarajevo, Goražde, Srebrenica, Tuzla, Žepa e Bihać.
Il 5 febbraio 1994 Sarajevo subì il più sanguinoso attacco singolo durante l'intero assedio, il massacro di Markale: un colpo di mortaio da 120 millimetri atterrò nel centro del mercato affollato, uccidendo 68 persone e ferendone altre 144. Di conseguenza, il Segretario generale delle Nazioni Unite Boutros Boutros-Ghali chiese alla Nato di intensificare le incursioni aeree contro i serbo/croati. Solo la Grecia non sostenne l'uso di attacchi aerei, ma non espresse un veto alla proposta. La Nato effettuò quindi un attacco aereo contro l'artiglieria e i mortai a Sarajevo. Il Consiglio della Nato mandò quindi un ultimatum ai serbo/bosniaci, chiedendo la rimozione delle armi pesanti vicino a Sarajevo pena altre incursioni aeree, cosa che riportò la tranquillità nella capitale bosniaca.
La guerra tra croati e bosniaci si concluse il 23 febbraio 1994, quando il comandante della HVO, generale Ante Roso, e il comandante dell'esercito bosniaco, generale Rasim Delić, firmarono un accordo di cessate il fuoco a Zagabria. Il 18 marzo 1994 un nuovo accordo di pace mediato dagli Stati Uniti tra i croati in guerra (e non la Croazia come Stato) e la Bosnia-Erzegovina fu firmato a Washington e Vienna. L'accordo di Washington divideva il territorio in cui le due etnie convivevano in 10 cantoni autonomi, trasformando la Bosnia in uno Stato federale. 
A questo punto i croati, regolari e non, decisero un clamoroso voltafaccia, alleandosi con bosniaci e truppe Nato per lanciare un'offensiva contro l'Esercito della Repubblica Serba (VRS), che manteneva il controllo su alcune zone del Paese. I jet nato, pochi giorni prima, avevano abbattuto 4 aerei serbi sopra la Bosnia centrale per aver violato la no-fly zone imposta dall'Onu.
A un contingente danese in servizio di peacekeeping in Bosnia, come parte del battaglione di UNPROFOR, venne teso un agguato mentre cercava di aiutare un posto di osservazione svedese che era sotto il fuoco dell'artiglieria pesante serba presso il villaggio di Kalesija, ma l'agguato fu disperso quando le forze Onu reagirono con il fuoco pesante. Il 5 ottobre 1994 il Presidente Bill Clinton dichiarò che, se i serbi non avessero si fossero seduti al tavolo negoziale,  avrebbe presentato una proposta al Consiglio di Sicurezza dell'Onu per terminare l'embargo sulle armi. Tuttavia, gli Stati Uniti decisero di revocare unilateralmente l'embargo sulle armi contro la Bosnia e il Consiglio Nord Atlantico approvò l'estensione del supporto aereo alla Croazia per la protezione delle forze dell'Onu nel Paese.  
Il 6 luglio 1995 le truppe serbe del generale Ratko Mladić, con una mossa a sorpresa, occuparono la "zona di sicurezza" delle Nazioni Unite a Srebrenica, nella Bosnia orientale, e si dedicarono a un'enorme pulizia etnica: fino al 25 luglio, circa 8000 uomini furono uccisi nel massacro di Srebrenica, mentre la maggior parte delle donne vennero cacciate in territorio bosniaco. Le Forze di protezione delle Nazioni Unite, rappresentate da un contingente di 400 soldati olandesi, non riuscirono a impedire il massacro.
I maschi dai 12 ai 77 anni furono separati dalle donne, dai bambini e dagli anziani con il pretesto di essere interrogati, venendo in realtà massacrati e sepolti in fosse comuni. La Lista preliminare delle persone scomparse o uccise a Srebrenica compilata dalla Commissione Bosniaca delle Persone Scomparse contiene 8.372 nomi. Ad oggi, 6.930 salme riesumate dalle fosse comuni sono state identificate mediante oggetti personali rinvenuti oppure in base al loro Dna, che è stato confrontato con quello dei consanguinei superstiti.
Il Tribunale penale internazionale per l'ex-Jugoslavia (ICTY) delle Nazioni Unite, ha incriminato in totale 21 persone per i delitti commessi a Srebrenica, riconoscendo per molti di essi la fattispecie di "genocidio".
Durante i fatti di Srebrenica, i 600 caschi blu dell'ONU e Compagnie olandesi non intervennero, per motivi e circostanze mai del tutto chiariti. La posizione ufficiale è che le truppe Onu fossero scarsamente armate e non potessero far fronte da sole alle forze serbe. Inoltre, le vie di comunicazione tra Srebrenica, Sarajevo e Zagabria non erano ottimali, causando ritardi e intralci nelle decisioni. Oltretutto, i soldati olandesi subirono pesanti accuse da parte dei media al ritorno in patria per aver fatto uso di "donne di conforto": giovani prigioniere bosniache messe a loro disposizione da reparti paramilitari serbi. Proprio per evitare che si ripetessero episodi simili, l'Olanda ha deciso di non partecipare più ad alcuna operazione di pace. Il 4 dicembre 2006, il Ministro della Difesa olandese ha decorato con 500 medaglie il battaglione di pace che aveva il compito di proteggere Srebrenica, non come medaglia al valore ma come ricompensa per le accuse, ritenute ingiuste, a cui i soldati olandesi vennero sottoposti.
Le forze croate lanciarono quindi l'Operazione Tempesta, che annientò la Repubblica Serba di Krajina e causò l'uccisione e l'esodo di più di 250mila serbi dalla Croazia, giungendo a soli 20 km dal Banja Luka, capitale della repubblica serba. La Nato, su mandato Onu, aveva oltretutto iniziato l'Operazione Deliberate Force in supporto alle truppe di terra. 
Vista la schiacciante inferiorità, i serbi si decisero a trattare. Il 26 settembre 1995 fu raggiunto un accordo di base per un armistizio a New York tra i ministri degli esteri di Bosnia-Erzegovina, Croazia e Serbia (allora ancora formalmente Jugoslavia). Venne stabilito un cessate il fuoco di 60 giorni per permettere lo svolgimento di negoziati di pace a Dayton, negli Stati Uniti. La guerra in Bosnia si concluse definitivamente con l'Accordo di Dayton, firmato il 21 novembre 1995; la versione definitiva dell'accordo di pace fu firmata il 14 dicembre a Parigi.
Alla Nato, e non più all'Onu, venne affidato il mandato di comporre una Forza di Attuazione (IFOR) in Bosnia per far rispettare la pace, fornire supporto umanitario e politico per la ricostruzione del Paese, il rimpatrio dei civili sfollati, la raccolta di armi e mine e ordigni inesplosi.
I morti finora accertati sono 93 837, di cui 63.600 bosniaci, 24.200 serbi (25,8%), 5mila croati (5,39%) e 877 serbi (0,93%). Guardando alle forze internazionali, circa 320 soldati UNPROFOR sono stati uccisi. Inoltre, per l'UNHCR, oltre 2,2 milioni di persone sono fuggite dalle loro case, il più grande spostamento di persone in Europa dalla fine della Seconda Guerra Mondiale.
Il 6 dicembre 2004, il Presidente della Serbia Boris Tadić ha offerto le sue scuse alla Bosnia- Erzegovina a tutti coloro che hanno sofferto i crimini commessi in nome del popolo serbo. Anche il Presidente della Croazia Ivo Josipović si è scusato nel 2010 di fronte al Parlamento bosniaco. Il 31 marzo 2010 anche il parlamento serbo ha adottato una dichiarazione di "condanna nel modo più assoluto il crimine commesso nel luglio del 1995 contro la popolazione bosniaca di Srebrenica", il primo del suo genere.

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